in ricordo di Frankie- 26 settembre 2007


Pubblicato in: L'album dei ricordi

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carola73

FRANKIE
2002

Durante la mia vita posso dire di aver conosciuto tanti amici pelosi, bei cagnini scondinzolanti e sussiegosi gattoni, e di aver condiviso con alcuni il tetto e anche il letto. Ad ognuno di loro ho voluto bene, cercando di rispettare il più possibile la loro natura, e a tutti ho cercato di dare il mio amore in modo assolutamente equilibrato, senza indulgere in pericolose “preferenze”.
Ogni amico a quattro zampe che ha condiviso con me un pezzo di strada mi ha amato, mi ha fatto compagnia nelle giornate tristi, ha condiviso quelle allegre, mi ha seguito durante i miei infiniti traslochi da una parte all’altra d’Italia con pazienza, adattandosi immediatamente alle nuove città, ai nuovi ritmi e alle nuove abitudini. Ma soprattutto, solo ora, dopo circa 25 anni di convivenza canara e gattifera me ne rendo conto, da ognuno di loro ho imparato qualcosa. E chi mi ha insegnato più di tutti, forse solo al pari di Straccy, è stato certamente il gatto Frankie. Devo ammettere, anche sentendomi un pochino in colpa, che Frankie era per me veramente “speciale”. E’ un po’ come con i figli, non lo ammetteresti mai, ma il preferito c’è.
Frankie era un bel gattone tigrato, di corporatura robusta, ben piantato sulle quattro zampe, e con l’aria da “duro”. La sua espressione torva in realtà non era frutto di un pessimo carattere, tutt’altro, ma retaggio di un pauroso incidente nel quale era stato coinvolto. Guardandolo non si poteva non rimanere stupefatti dalla evidente bruttezza del suo musetto, ma anche immediatamente conquistati dal suo modo di fare dolcissimo che faceva a botte con un aspetto estetico decisamente sui generis. Frankie aveva infatti subito un forte impatto con una macchina, o almeno così io l’ho sempre interpretata poiché non ero presente al fatto, che gli aveva lesionato un nervo, proprio sulla fronte. Il risultato era stato una semi-paralisi del muso, che appariva diviso perfettamente a metà. Un lato ospitava un micio dall’espressione normalissima, il lato opposto invece, addormentato per sempre, presentava un orecchio pendulo verso terra, e un ghigno mefistofelico che lasciava scoperto un dentino. Tra l’altro a causa della paralisi l’occhio nella parte offesa non si chiudeva mai, dato che anche la palpebra era atrofizzata, con il risultato che il povero micio dormiva con un occhio aperto: devo dire un po’ inquietante.
Nella primavera del 2002, sarà stato aprile, maggio, mi trovavo a Capri, come facci odi solito quando si avvicina la stagione del mio compleanno. E’ per me quasi un capodanno, la chiusura di una stagione della vita e l’aprirsi di una nuova, in coincidenza con il risveglio della primavera.
Seduta sulle scale mi godevo il sole e il tepore primaverile, promessa di ben altre temperature che di lì a poco sarebbero arrivate. Ad occhi chiusi, con il viso rivolto verso il cielo, ero totalmente assorta nei miei pensieri. All’improvviso sentii un fruscio e aprii gli occhi. Comparve dinanzi a me un bel micione tigrato, magro da far paura, sporco e puzzolente. Camminava a stento, una zampa doveva essere evidentemente ferita e infatti non poggiava terra, e il muso….. beh il muso sembrava scomposto! Ricordo di aver pensato immediatamente a Picasso….quel gatto sembrava l’incarnazione delle opere del maestro!
Anche la coda lasciava parecchio a desiderare, completamente priva di parte del pelo e alla base ricoperta di pus.
Lo guardai in silenzio, sapendo che alzarsi di scatto e parlare ad un micio in avvicinamento è il modo migliore per farlo scappare. Dopo un attimo di studio mi sembrò che il piccolo Picasso avesse intenzioni amichevoli e quindi, continuando a rimanere seduta, lo chiamai dolcemente. Ad un cenno il povero micio iniziò a trascinarsi per le scale e, potere delle sue 7 vite, in pochi istanti mi si accoccolò in braccio. Non mi era mai successo che un gatto randagio al primo incontro mi saltasse in braccio con tanto ardore! Ero veramente stupita. I gatti in generale, ma ancor di più i randagi, difficilmente concedono la loro amicizia in così breve tempo, sono sempre guardinghi, sospettosi, e la conquista è in genere lenta e frutto di sofisticate manovre fatte di avvicinamenti, moine e soprattutto grossi tranci di merluzzo.
In quel caso invece non era affatto andata così, anzi il micio aveva dimostrato subito la sua simpatia per me. In breve ero stata “adottata”.
Ad un esame più approfondito la situazione era ancora peggiore di come mi era apparsa da lontano. Il gatto aveva un profonda ferita sulla guancia sinistra, completamente ricoperta di pus che sgorgava copioso, attorno una grossa quantità di sangue ormai raggrumato, e l’occhio semi chiuso da un evidente trauma. La zampa non era in condizioni migliori ma quello che spaventava più di tutto erano le costole, che si potevano contare attraverso la pelliccia, e la coda, che sembrava essere stata bruciata.
Armata di buona volontà iniziai a dargli una sistemata, per quel poco che si poteva fare. Innanzitutto un buon pasto, niente scatolette, ma un sano pesciolino. Poi una bella pulizia alla ferita che mostrava segni quasi di necrosi. Il micio lasciava che armeggiassi con grande tranquillità, mostrando un’indole buona, addirittura remissiva, e lasciava che con il disinfettante lo toccassi anche in quella zona che, sono certa, doveva fargli un male tremendo. Con stupore misto a un certo disgusto, lo confesso, presto scoprii che la ferita era talmente profonda che aveva mangiato la carne viva, e che il pus ricopriva solo l’osso ricoperto dalla muscolatura e dai nervi, che si vedevano benissimo.
Mi faceva moltissima pena, ma purtroppo non potevo fare molto di più per lui. Sull’isola non c’erano veterinari, e lì ci voleva un intervento deciso di un professionista, certo una medicazione non sarebbe bastata. Dopo un breve consulto telefonico, e dietro indicazioni del mio veterinario di fiducia, iniziai a somministrargli dell’antibiotico che, unito a pappe regolari, un buon antipulci e un vermifugo, e qualche manifestazione d’amore, in capo a una decina di giorni avevano reso il micio un altro gatto.
Dopo una rapida indagine all’interno del condominio venni a sapere dai miei vicini che Mac, così era stato chiamato, era comparso qualche mese prima, già in quelle condizioni. Dunque era riuscito a superare l’incidente, le sue conseguenze, la fame, e il freddo dell’inverno. Doveva avere veramente una fibra eccezionale!
Dopo i miei dieci giorni di vacanza e dopo aver raccomandato ai vicini di vigilare sulla salute di Mac, tornai a Torino, con la promessa di tornare presto e cercargli una sistemazione.
All’epoca la famiglia era prevalentemente felina: Momi, il capostipite aveva ormai 14 anni, Penny, la duchessa di casa, 12, Nanà, che si ostinava a fare la giovincella 11, e infine Rossino, l’ultimo arrivato salvato in extremis, 4. Niente cani. Dopo la morte di Straccy e Sailor mia madre si rifiutava strenuamente di accogliere in casa uno scodinzolante, considerandolo un tradimento nei confronti dei nostri amici morti tanti anni prima.
Escludendo di poter fare accogliere in casa il quinto gatto, mi arrovellavo cercando disperatamente un potenziale amico a due zampe per il micio scassato, Mac.
Con l’arrivo dell’estate ci trasferimmo come al solito sull’isola. Quell’anno ero elettrizzata: sentivo un richiamo speciale, sentivo che il micio mi stava aspettando e che era ancora vivo, anche se non in splendide condizioni. Era diventato una fissazione per me, contavo i giorni che ci separavano dalla partenza, cercando di immaginare come si sarebbe comportato Mac al mio arrivo.
In effetti Mac non mi deluse. Appena giunta a casa mi venne incontro miagolando, per niente infastidito dalla presenza di altri 4 felini, che di certo non gradivano la sua ingombrante presenza. Passammo l’estate a coccolare il micio, che pian piano dava segni di ripresa, e che ormai aveva eletto una delle sedie del soggiorno a sua cuccia personale. La sera però l’accesso in casa era stato bandito: mia madre, ancora convinta di non voler adottare il micione, asseriva che sarebbe stata una cattiveria abituarlo a dormire sul letto con noi, quando avrebbe avuto davanti a sé un lungo inverno da passare da solo.
A nulla valsero le mie preghiere, i miei occhi dolci….. Frankenstein, così era stato ribattezzato, sarebbe rimasto sull’isola.
Con l’arrivo della fine dell’estate ero riuscita a trovare una sistemazione per lui a Roma da una gentile signora che dava ospitalità già a circa una trentina di mici. Sembrava la soluzione migliore: mia madre non avrebbe dovuto accogliere in casa l’ennesimo felino e io, purtroppo a distanza, avrei potuto seguirlo e chissà magari qualche volta andare a trovarlo. Tutto era pronto per la partenza. D’accordo con mia madre tenemmo Frankie con noi fino all’ultimo momento possibile poi, circa una settimana prima del nostro trasferimento a Torino per l’inverno, presi il treno e andai a Roma.
Nel suo trasportino Frankie dormiva beatamente, fiducioso e sicuro. Gli bastava sentire la mia presenza per tranquillizzarsi immediatamente e affrontare i rumori del traffico cittadino, che a lui dovevano sembrare terribili, lo sferragliare del treno, il caldo insopportabile che ancora in quella fine di settembre attanagliava la capitale. E poi il trasferimento in taxi fino alla casa dove sarebbe stato ospitato.
La signora si dimostrò molto gentile. Frankie avrebbe avuto a disposizione un enorme terrazzo per le sue scorribande e un paio di stanze al coperto dove dividere il rancio con una trentina di mici. Aprii la gabbietta, si guardò in giro un po’ stupito e poi piano piano iniziò a camminare. Senza che se ne accorgesse mi girai verso le scale e lo lasciammo lì. Attraverso la porta a vetri vidi che ogni tanto si girava verso la mia direzione, con lo sguardo orbo mi cercava, uno sguardo che interpretai come disperato. Senza pensarci oltre voltai le spalle e con le lacrime agli occhi presi la strada del ritorno.
Tante volte ho sentito quella terribile sensazione di abbandono, di distacco, di struggente nostalgia verso un animale che avevo raccolto malandato, rimesso in sesto e poi sistemato presso un nuovo padrone. Come la maggioranza delle persone che amano gli animali infatti, non posso certamente ospitare in un appartamento uno zoo troppo folto e quindi per forza di cose, da alcuni dei miei protetti mi sono dovuta separare. E sempre i primi minuti, le prime ore dopo il distacco sono i più difficili da digerire. Se infatti è vero che bastano cinque minuti perché un animale ti conquisti e ti entri nel cuore, ce ne vogliono molti di più perché si riesca a far uscire quello stesso animale dalla tua vita, dai tuoi pensieri. Pur sapendo che andranno a vivere in una casa dove saranno amati e coccolati, per un breve istante hanno fatto parte della tua vita e non puoi dimenticarli. Ancora oggi ricordo benissimo tutti i cagnolini e i mici che ho raccolto e, benchè di alcuni di loro non abbia più notizie, li amo tutti ancora come in quei giorni.
Ma la sensazione che provavo con Frankie era diversa. Lo sentivo “mio”, quasi un pezzo di me…. quel gatto riusciva a capirmi profondamente, molto più di tante persone che negli anni avevano incrociato il mio cammino. Pur parlando lingue diverse, difatti ho qualche problema con il gattesco (!), bastava uno sguardo, un gesto e la nostra intesa era perfetta. Mi seguiva dappertutto, al mio richiamo si presentava puntualmente, e quando mi aggiravo per la stanza lui, placidamente adagiato sul divano, non mi perdeva di vista un solo istante.
Durante il viaggio di ritorno guardavo il paesaggio dal finestrino e ripensavo a quello che avevo fatto. Mi sembrava quasi di sentire quello che Frankie stava provando in quel momento: incredulità, paura, sensazione di abbandono e solitudine. Distrattamente posavo gli occhi sul trasportino ormai vuoto e non riuscivo a trattenere le lacrime.
Arrivata a Capri, dove mamma mi aspettava per completare gli ultimi preparativi prima della partenza per Torino, ero veramente depressa. Lo vedevo dappertutto, erano passate solo poche ore ma già mi mancava tremendamente. Bastava che venisse inavvertitamente nominato per farmi scoppiare in un pianto irrefrenabile che mi lasciava nella costernazione più totale. A questo si aggiunsero le telefonate alla signora romana, che si susseguirono al ritmo di un paio al giorno per l’intera settimana, per gettarmi nella disperazione. Frankie non toccava cibo, si era arrampicato su una tettoia in lamiera del terrazzo, non aveva tentato minimamente di fare amicizia con il resto della colonia e al momento della somministrazione quotidiana dell’iniezione di antibiotico si mostrava talmente remissivo da sembrare indifferente. Se gli altri gatti al momento di una puntura graffiano, si agitano, soffiano, Frankie rimaneva perfettamente immobile, come se tutto quello che accadeva introno a lui non gli interessasse.
Allo scadere della settimana la signora di Roma era veramente preoccupata, l’integrazione nella colonia e nella nuova casa sembrava impossibile ma soprattutto Frankie sembrava essere scivolato in una profonda depressione. So che suona un po’ ridicolo parlare di depressione per un gatto, ma le parole della signora e i suoi racconti dipingevano davvero un quadro di patologia depressiva, solo che in quel caso non si trattava di depressione umana!
All’ennesimo pianto da parte mia mamma cedette e un po’ rassegnata sentenziò: “se devi stare così male vallo a riprendere! Pazienza, starà con noi!”.
Confesso che fu uno dei giorni più felici della mia vita. Sentivo che un terribile peso che mi opprimeva il cuore d’incanto era sparito e, con le ali ai piedi, tornai a Roma, questa volta con una disposizione d’animo completamente diversa. Dopo un lungo colloquio con la signora ci accordammo che sarebbe stato lo stesso Frankie a scegliere. Non era mai sceso dal suo tetto di lamiera dove si era rifugiato una settimana prima, e la signora non disperava di poterlo tenere con sé. Frankie infatti aveva un modo di fare, una dolcezza, unici, e nessuno riusciva a passare indenne alle sue moine. Tutti, indistintamente, restavano conquistati da lui. E anche la signora ne era rimasta vittima!
Dunque avrei dovuto chiamarlo, una sola volta, senza avvicinarmi né cercare di attirarlo verso di me. Per niente timorosa per un eventuale fallimento dell’operazione ero convinta che Frankie non mi avrebbe deluso, e con convinzione cominciai a salire le scale che portavano in terrazza.
Stringevo il trasportino con la mano destra, sicura che di lì a poco avrei di nuovo sentito un bel peso! Come d’accordo, aperta la porta finestra, mi ritrovai in terrazza: in giro pascolavano pigramente parecchi mici, qualcuno era steso al sole, altri si dimostravano infastiditi dalla mia presenza, altri ancora mi ignoravano completamente. Ma di Frankie neppure l’ombra.
Lo chiamai con tutta la forza che avevo dentro. Un solo richiamo, lungo, chiaro, netto. “Frankiiiiiiiiiii”. Immediatamente si sentirono dei veloci passettini sul tetto di lamiera sopra di noi e un miao insistente. In pochi istanti Frankie balzò dal tetto al muretto di collegamento e mi avvicinai. Sono certa di aver visto la felicità nei suoi occhi, la gioia per un’amica ritrovata. So che molti non saranno d’accordo on me, trattandosi di un animale e non di un essere umano, ma sono certa che lui fosse felice di vedermi, e me ne accorsi. Mi avvicinai e non appena fui di fronte a lui, che era all’altezza della mia spalla perché mi aspettava sul muretto, si esibì nella più bella capocciata della sua vita contro la mia clavicola. Saltò sulla mia spalla, come gli avevo insegnato a fare, e affondò il musetto nei miei capelli. Lo sentivo strusciarsi contro il collo, aprire e chiudere meccanicamente i polpastrelli agganciandoli alla mia maglietta, il tutto accompagnato dal più sonoro dei ron ron. “Bene, direi proprio che Frankie ha scelto! Voi due non potete stare lontani, e si vede. Sa, non gliel’ho detto l’altra volta perché non volevo influenzarla, ma eravate entrambi talmente tristi da avere la stessa espressione. Se l’avesse lasciato con me avrebbe fatto uno degli errori più grandi della sua vita! Buona fortuna, a tutti e due!”
La signora aveva ragione. Sentivo di aver riacquistato un pezzo di me, e quel dolore così pungente che mi aveva fatto compagnia per una settimana era scomparso. Poggiai con delicatezza Frankie ai miei piedi, presi il trasportino, lo aprii e gli dissi: “allora, si va?”. Incredibilmente Frankie si lasciò guidare con grande docilità all’interno del trasportino, come non ho mai visto fare a nessun gatto, e ce ne andammo, finalmente insieme.
Era fatta. Io ero stregata da lui, e lui da me. Durante il viaggio misi il trasportino sulle ginocchia perchè potesse sentire che ero lì, e lui non fece altro che dare simpatiche capocciate allo sportellino, accompagnandole con sinuosi meowwww.
Mamma ci aspettava direttamente a Napoli, infatti il giorno dopo ci attendevano 8 ore di macchina per arrivare a Torino. Ero un po’ preoccupata per Frankie: tutto quel trambusto, il viaggio in treno, l’arrivo a Napoli in una casa che non aveva mai visto, poi il lungo tragitto per Torino e un appartamento in città senza alberi, giardino. Chissà se si sarebbe abituato, in fondo era un micio di strada, abituato a stare all’aperto. Dopo tanta fatica, tra ripensamenti vari, viaggi, adozioni sfumate, proprio non volevo costringerlo in un ambiente lontano dal suo habitat o peggio, rinchiuderlo in una gabbia d’oro.
Subito Frankie mi dimostrò di aver fatto la scelta giusta, per me e per lui. Non appena arrivammo a Napoli corse incontro a mia madre che, in fondo in fondo, non lo aveva mai tollerato molto, anche se lo trovava molto dolce.
Con mamma Frankie fece un vero capolavoro: dopo esserle corso incontro con festosi miew, alzò il capino verso di lei e guardandola teneramente con il suo occhio buono e l’altro perennemente lacrimoso, iniziò ad alzare a abbassare le zampine “impastando” sul pavimento. Un comportamento che di solito i gatti adoperano per dimostrare tutto il loro affetto quando sono a contatto con l’oggetto dei loro desideri. Frankie “impastava” solo alla vista di mamma che, definitivamente conquistata e ormai vittima clamorosa del micio, lo guardò con affetto. “Ci ha proprio scelto, guarda com’è felice di stare con noi! Basta, abbiamo fatto bene, non lo possiamo separare da noi”. Era stata fatta un’altra vittima.
Al nostro rientro a Torino Frankie fu visitato da un veterinario, che lo sottopose a più di una operazione di drenaggio della ferita. Per una decina di giorni andava tutto bene poi, d’improvviso, la ferita si riapriva e il pus ricominciava a sgorgare copioso. Anche se il suo faccino era deturpato e inevitabilmente sporco lo adoravo lo stesso. Era capace di starmi attaccato tutto il giorno e tutta la notte, e bastava solo che mi rivolgessi a lui con voce dolce perché iniziasse a ronfare sonoramente.
Dopo un inverno passato al calduccio, gli opportuni antibiotici e pappe fresche tutti i giorni aveva messo su peso, la pelliccia era ritornata folta e anche la coda, prima macilenta e bruciata, aveva cominciato a veder spuntare la prima peluria.
Al terzo drenaggio inutile decisi di rivolgermi ad un altro veterinario. Frankie non guariva, la situazione della ferita sul muso continuava ad essere critica, e di certo non gli si potevano somministrare antibiotici in eterno.
Mi rivolsi ad una importante clinica di Torino, un centro apprezzato e molto conosciuto di cui mi avevano detto un gran bene. Alla prima visita Frankie destò lo stupore di tutto il personale medico. Non era cosa comune vedere un gatto con un tale trauma facciale vivo e vegeto! Fu visitato dal neurologo, che diagnosticò una lesione del nervo vestibolare che gli aveva paralizzato metà musetto, ma escluse problemi di altra natura, almeno dal punto di vista neurologico. Poi fu il turno del chirurgo, che si dimostrò molto ottimista ma che non mi nascose la sua perplessità di fronte a quella ferita che non accennava a chiudersi. Dopo una serie di analisi, che evidenziarono una insufficienza renale e una positività all’aids felino con relativa immunodeficienza (forse era questo che impediva alla ferita di guarire) si decise per un’operazione. Ricordo ancora le parole del medico: “signorina se lei mi autorizza io apro e vado avanti finchè non trovo la causa”.
Inutile dire che approvai immediatamente e fissammo l’operazione per la settimana successiva.
Il giorno dell’operazione ero molto nervosa e preoccupata, faceva moltissimo caldo pur essendo soltanto giugno. Era il 2003, un anno che sarà ricordato per essere stato uno dei più bollenti del secolo. Torino era attanagliata da una morsa di afa soffocante, e l’umidità era veramente insopportabile. Mi sembrava di sottoporre Frankie ad un’inutile ulteriore tortura, ma ormai tutto era già stato deciso.
Lo misi nel trasportino e mi avviai verso la clinica con il cuore gonfio di preoccupazione.
Erano le 9 del mattino, il medico mi assicurò che per mezzogiorno sarebbe stato tutto finito e che mi avrebbe chiamato non appena Frankie si fosse svegliato. In serata, dopo un paio d’ore di osservazione, sarei potuta andare a riprenderlo.
Quella mattina andai in ufficio quasi volentieri. La possibilità di potermi concentrare sul lavoro e non pensare a Frankino mi sembrava meravigliosa, ma avevo fatto i conti senza l’oste, ovvero senza considerare la mia emotività. Fissavo il computer con sguardo vacuo, e fissavo ogni 5 minuti il cellulare per controllare che non mi avessero chiamato dalla clinica e che magari per una mia disattenzione non avessi sentito. Le ore passavano, arrivò la pausa pranzo dell’una e ancora non si era fatto sentire nessuno. Al bar giocai svogliatamente con le mie foglie d’insalata, e con un buco allo stomaco che faceva presagire il peggio. Non avevano chiamato. Che fosse successo qualcosa? Oddio ma era proprio necessaria quella operazione? Iniziavo a maledire me stessa e la mia testardaggine. Avevo voluto a tutti i costi che Frankie fosse sottoposto ad una nuova operazione, ma mi ero rivolta ad altri veterinari. E se non fossero stati bravi? E se Frankie non avesse superato l’anestesia? Forse era ancora troppo debole, aveva bisogno di più tempo per rimettersi……Alle 2.30 non ce la feci più e chiamai io.
Una gentile signorina si informò subito della situazione e dopo qualche minuto, con tutta la delicatezza possibile mi disse: “il micio è ancora in sala operatoria. L’operazione si sta rivelando più complessa del previsto, richiami verso le 5 perché prevedono di finire per le 4, 4.30”. Frankie era entrato in sala operatoria alle 10: 6 ore di operazione……Dio mio che avevo fatto!
Contai le ore, i minuti, i secondi che mi dividevano dalle 5 del pomeriggio, poi finalmente richiamai e mi rispose direttamente il chirurgo che aveva operato Frankie.
Il micio stava bene, aveva superato brillantemente l’operazione, che si era rivelata molto dura e invasiva, ma avrebbe dovuto rimanere in ospedale per almeno una settimana. Mi invitarono ad andare quella stessa sera in clinica a salutarlo, così avremmo anche parlato a quattr’occhi e mi avrebbero spiegato meglio cosa era successo.
Quando arrivai in clinica ero sollevata dal pensiero che Frankie avesse superato l’operazione, ma anche preoccupata per le condizioni in cui l’avrei trovato e dal fatto che era rimasto sotto i ferri per ben 6 ore.
Il medico mi accolse con un sorriso e con dovizia di particolari mi spiegò tutto.
Prima dell’incidente Frankie, come la maggior parte dei gatti randagi, aveva una forte otite. L’impatto con l’auto da una parte aveva lesionato il nervo vestibolare provocando una semi-paralisi, dall’altra aveva troncato il canale auricolare. L’infezione era progredita, e il pus non trovando più uno sfogo verso l’alto, aveva iniziato ad utilizzare come valvola di uscita una ferita retaggio dell’incidente. I drenaggi non avevano avuto alcun successo perché il problema non era nella ferita sulla guancia, ma nell’orecchio.
Guardai Frankie. Ora sembrava veramente Frankenstein! L’orecchio interno, totalmente perduto, era stato rimosso e l’orecchio esterno chiuso. La guancia riportava una serie di punti che tiravano la pelle e gli conferivano un ghigno ancora più mefistofelico che in passato. Parte del muso era stato rasato rivelando la pelle grigiastra, la zampa portava il catetere per la flebo, e per sicurezza gli avevano messo un collare elisabettiano perché evitasse di leccarsi. Non era un bel vedere, questo è certo, ma era sempre il mio Frankie.
Non appena mi vide, pur essendo reduce da una operazione terribile, si divincolò dalle braccia del medico. Tesi le braccia verso di lui,e in un attimo fummo di nuovo insieme.
Per una settimana andai a trovarlo tutte le sere. Nella camera di degenza passavamo un’oretta a farci le coccole, io lo carezzavo a più non posso, e lui mi rispondeva dandomi capocciate eloquenti, impastando sulle mie gambe e non mollandomi un minuto. Alla fine della nostra ora eravamo tutti e due tristi: mentre lo portavano via Frankie si girava verso di me lanciando miewww disperati, e non riuscivo a trattenere le lacrime.
Presto la settimana di degenza in ospedale passò e finalmente venne il giorno in cui avrei potuto riportarlo a casa.
Il medico mi spiegò che forse avrebbe avuto qualche problema di equilibrio, dal momento che un orecchio era stato rimosso, ma che in confronto ai problemi precedenti era ben poca cosa. Scoprii con sconcerto che in tutti quei mesi, anzi in quell’anno e mezzo (tanto avevo stimato dovesse essere passato dal giorno dell’incidente) il gatto aveva vissuto con un mal di testa feroce e i sintomi della labirintite. Si era dimostrato un animale dall’indole veramente pacifica quindi, considerando tutto quello a cui l’avevo sottoposto, e ai dolori atroci che provava.
Quando varcai la soglia di casa Frankie era felice. Fece un giretto esplorativo, mangiò la sua pappa preferita e si buttò sul mio letto, dove dormì per 16 ore filate senza mai alzarsi. Finalmente lo vidi dormire profondamente, gustarsi il sonno, cosa che prima con il mal di testa evidentemente non gli era mai stato possibile. Dopo aver visto quanto dormiva profondamente mi resi conto che in precedenza non aveva mai riposato davvero, aveva vegliato, assopendosi ogni tanto.
Passarono gli anni, e furono anni bellissimi.
Frankie era diventato un gattone meraviglioso, grasso, dalla pelliccia folta. La zampa era completamente guarita, la coda si era ricoperta nuovamente di pelo, e il suo musetto, così strano per gli altri, era per me la caratteristica più bella del suo essere gatto.
Si rivelò un grande amante della casa e delle comodità e quando tornammo a Capri, nelle estati successive, dopo aver vagabondato in giro tornava sempre a casa a dormire, vicino a me. Bastava che urlassi il mio richiamo per vederlo comparire dopo poco, trotterellando felice e accompagnando la sua corsetta con i rituali miewww.
Non credevo che avrei dovuto separarmi da lui dopo così breve tempo. Ci hanno regalato 5 anni, ma 5 anni sono un soffio, un alito di vento.
In quel periodo stavo lavorando moltissimo, ero stata appena assunta da un’azienda che aveva dimostrato di aver fiducia in me, e cercavo di restituire questa fiducia svolgendo una gran mole di lavoro. A volte gli orari si facevano impossibili, e così tornavo sempre a casa piuttosto tardi.
Frankie sonnecchiava tutto il giorno, ma al mio arrivo si faceva puntualmente trovare sulla sedia dell’ingresso e non appena varcavo la soglia si alzava sulle due zampe salutandomi con il suo solito miewww.
Il rito si concludeva con le mie moine, lo prendevo subito in braccio sistemandomelo sulla spalla e lui affondava il musetto nel mio collo, strusciandosi all’infinito.
Tutte le notti si addormentava alla mia sinistra, all’altezza della spalla, con il musetto a contatto con il mio collo.
Un giorno tornai a casa e vidi che Frankie aveva un comportamento strano. Non era festoso come al solito, si rifiutava di mangiare, e sonnecchiava tutto il tempo. Sembrava poco “lucido”.
L’analisi del sangue rivelò quello che temevo: un’insufficienza renale già in stadio avanzato. Tutti quei mesi dopo l’incidente con l’infezione gli avevano provocato una tossicosi, e gli antibiotici, i drenaggi, le operazioni a cui era stato sottoposto avevano peggiorato la situazione.
Divenni furiosa quando scoprii che i medici della clinica non gli avevano prescritto un semplice farmaco, un farmaco che avrebbe potuto allungargli la vita di parecchi anni. Sapevano che aveva un’insufficienza renale, ma l’unica indicazione che mi avevano dato era stata quella di non fargli mangiare carne, solo pesce, meno proteico.
Ora era troppo tardi per intervenire. L’insufficienza renale è una malattia degenerativa, si può rallentare, ma ha un decorso inesorabile, e i reni di Frankie avevano già perso quasi del tutto la loro funzionalità.
Per qualche mese andammo avanti con una pastiglia salvavita al giorno, ma in pochi mesi la situazione peggiorò.
A maggio mi resi conto che Frankie sembrava istupidito, non reagiva, rifiutava il cibo, non rispondeva ai miei richiami e non mi cercava. Vegetava su una poltrona tutto il tempo.
Facemmo altre analisi, e il responso fu tutt’altro che incoraggiante. La creatinina era altissima, così come l’azotemia. In quelle condizioni il gatto sarebbe vissuto ancora un paio di settimane.
Ascoltai la condanna inebetita. Frankie sembrava ancora in forze, non era dimagrito molto, il pelo folto e lucido. Mi sembrava incredibile pensare che nel giro di una manciata di giorni mi avrebbe lasciato.
D’accordo con la mia veterinaria provammo con una terapia d’urto. Ero fiduciosa, sapevo che Frankie aveva vinto ben altre battaglie, e sapevo che il coraggio e la voglia di vivere non gli mancavano. La dottoressa era molto meno fiduciosa di me. Il valore della creatinina era 12, mi spiegò che in genere quando il valore è su 8 il blocco renale è inevitabile. Tuttavia, forse convinta dalla straordinaria tempra di Frankie e dal mio sguardo disperato accettò di applicare una flebo in vena per reidratarlo.
Per alcuni giorni portai Frankie in ambulatorio tutte le mattine, scappavo in ufficio subito dopo, e la sera andavo a riprendermelo.
Frankie sembrava stare un po’ meglio, ma la situazione era ancora critica. Nei giorni seguenti la creatinina iniziò a scendere, e il gatto riprese a mangiare, anche se svogliatamente.
La dottoressa mi spiegò che Frankie si disidratava moto velocemente, e che l’unica speranza per dargli un po’ più di tempo era somministrargli molti liquidi. Dovevo imparare a fare le flebo sottocute, da questo dipendeva la sua vita.
In breve superai il terrore di fargli male e divenni un’esperta. Circa 3, 4 volte al giorno lo sottoponevo a una vera e propria tortura, ma Frankie non si lamentò mai. Nello studio del veterinario faceva il diavolo a quattro, ma quando si trattava di essere toccato da me si sottoponeva docilmente ad ogni tipo di terapia.
Cercai notizie su internet sulla malattia, e capitai su un forum dove appassionati gattari si scambiavano consigli sulla cura delle varie patologie. Inutile dire che le discussioni aperte sul tema insufficienza renale purtroppo erano molte, dal momento che questa è una delle cause più comuni di morte per i felini.
Leggendo i messaggi mi accorsi che consigliavano spesso di coadiuvare la terapia reidratante con dei fermenti lattici, ma non quelli specifici per animali.
Dopo un veloce giro esplorativo in alcune farmacie mi procurai il tanto sospirato farmaco e chiesi alla mia veterinaria, alquanto scettica, il permesso di provare.
Trattandosi di fermenti lattici non potevano comunque fargli male, quindi ottenuto il benestare, iniziai.
La mia tabella di marcia comprendeva la flebo e i farmaci del mattino, all’una saltavo la pausa pranzo per correre a casa, fare un’altra flebo e somministrare altri farmaci. Alle 7, appena uscita dall’ufficio altra flebo e i fermenti lattici, prima di dormire ancora un’altra puntura.
I miei orari ruotavano ormai con quelli dei farmaci da somministrare a Frankie, e ogni minuto passato lontano da lui mi sembravano rubati alla nostra amicizia e alle cure che mi sentivo in dovere di dargli.
Furono mesi molto pesanti, stressanti all’inverosimile dal punto di vista psicologico. In ufficio ero sempre sulle spine, e solo la mia collega conosceva il motivo del mio malessere e del mio guardare l’orologio in continuazione. Per molti un animale domestico è solo un essere in pelliccia che gironzola per la casa, Per me invece è qualcosa di molto di più, un amico a quattro zampe, un essere totalmente dipendente da me, una creaturina che mi dà affetto, amore, amicizia senza chiedere nulla in cambio, capace di non farmi sentire mai sola neppure nei momenti più bui. Se con tutti gli animali della mia vita ho provato questo, con Frankie c’era un valore aggiunto: io l’avevo salvato, io gli avevo regalato una vita dignitosa, io ne ero direttamente responsabile e avevo scelto per lui quando aveva dovuto sottoporsi a terribili terapie, e il suo amore, il suo affetto nei miei confronti erano incondizionati.
Passarono i mesi e lentamente Frankie iniziò a migliorare. Ogni giorno mangiava con più appetito, sembrava più attivo, e la disidratazione era minore. In capo a due mesi ripetemmo le analisi, e all’inizio dell’estate la creatinina era scesa a 2.
La mia veterinaria non ci voleva credere. Poco tempo prima il gatto era stato dato per spacciato e ora, miracolosamente, si stava riprendendo.
Ero fuori di me dalla gioia. Il pensiero che Frankie forse sarebbe potuto rimanere con me ancora per qualche anno mi rendeva euforica.
Decidemmo di partire per Capri. Frankie avrebbe rivisto la sua isola, ma purtroppo nel profondo ero consapevole che per lui sarebbe stata l’ultima volta.
Passammo un’estate tutto sommato serena. Frankie scorrazzava in giro e non mostrava i segni della malattia. Ogni tanto dovevo andare a recuperarlo dalla vicina che, orrore!, avevo scoperto gli allungava carne cruda di vitello.
Da una parte cercavo di tenerlo sotto controllo, dall’altra desideravo che se la godesse il più possibile.
Frankie passò l’estate a sonnecchiare pigramente in giardino all’ombra del grande pino, ad arrampicarsi sui muretti delle case dei vicini, a rincorrere lucertole e passerotti. Con la fine di agosto si avvicinava il momento in cui sarei dovuta rientrare per tornare al lavoro, mentre mamma sarebbe rimasta ancora un po’ sull’isola.
Per problemi logistici si decise che Frankie sarebbe tornato con me a Torino, dove avrei potuto continuare a seguirlo e a somministrargli le terapie.
Ricordo molto bene il giorno in cui partimmo.
Per la prima volta da quando l’avevo conosciuto Frankie non era per niente contento di entrare nel trasportino e venire con me. Sapevo che sarebbe stato più giusto lasciarlo morire sulla sua isola, ma testardamente mi ostinavo a sperare che con la mia tenacia e la mia caparbietà sarei riuscita a regalargli altro tempo.
Lasciarlo a Capri avrebbe significato condannarlo per sempre. Mamma non era assolutamente capace di fargli le flebo o somministrargli i farmaci, e in brevissimo tempo senza la giusta idratazione sarebbe giunto il blocco renale.
Così partimmo.
Ricominciai il mio tour de force casa-ufficio-casa, rifiutando quanto più possibile pizze e uscite varie con gli amici pur di stare con lui.
In breve la situazione precipitò. Al ritorno di mia madre e del resto della famiglia felina e canina Frankie stava malissimo. Il valore della creatinina ormai era salito a 15, con grande sconcerto della veterinaria che non si capacitava di come il gatto potesse essere vivo. Ancora una volta Frankie stava dimostrando quanto fosse attaccato alla vita, e quanto coraggio, tenacia, perseveranza avesse.
In quei giorni ho imparato molte cose sulla vita e la morte, e soprattutto sulla dignità che ogni essere vivente dovrebbe avere quando la Signora bussa alla nostra porta.
Frankie dimostrò di possedere più dignità di molti esseri umani. Combattè fino alla fine, e ad un certo punto, semplicemente, si lasciò andare.
Negli ultimi giorni aveva deputato a suo giaciglio il divano del salotto. La flebo era perennemente in vena, e ormai non aveva neppure più la forza di muoversi o fare qualche passo. A nulla valsero tutte le mie moine più ossessive per cercare di farlo mangiare, rifiutava il cibo e sonnecchiava tutto il giorno.
Dal momento che il divano era diventato l’unico luogo dove sembrava volesse riposare mi ero trasferita anche io in salotto. Da un parte dovevo controllare che non si sfilasse la flebo dalla vena, e dall’altra desideravo stare con lui ogni minuto. Visto che durante il giorno non mi era possibile, al mio ritorno a casa passavo tutto il tempo con lui. Lo carezzavo, lo chiamavo, ma era assente, in stato soporoso.
Le nostre notti erano molto agitate.
Cercavo disperatamente di non addormentarmi, restavo seduta con una coperta per proteggermi dal freddo, e ogni mezzora controllavo se fosse ancora vivo.
Passarono i giorni. Ero distrutta, fisicamente e psicologicamente.
Vedevo che Frankie non ce la faceva più, e andando contro ogni mia convinzione chiamai il veterinario. Non volevo che soffrisse ancora, ormai non c’era più niente da fare, stavo prolungando la sua agonia per un bisogno egoistico.
Quando la dottoressa arrivò Frankie era come al solito sul divano. Parlai a lungo con la veterinaria, la quale si dimostrò d’accordo. Mi sedetti accanto a lui, desideravo stargli vicina e fargli sentire che non l’avrei abbandonato, che l’avrei accompagnato durante quel viaggio per quanto mi fosse stato possibile.
In quel momento Frankie si alzò in piedi. Con un traballante balzo mi fu tra le braccia, iniziando a fare le fusa e ad impastare con le zampe.
Alla visione di quella scena la veterinaria si rifiutò di praticare l’eutanasia, spiegandomi che il gatto era ancora vigile. Come medico aveva un’etica da rispettare: il gatto era cosciente. Gli sentì il cuore, che batteva forte e chiaro. Frankie non aveva nessuna intenzione di lasciare questo mondo, almeno per ora.
Frankie aveva forse capito? Non lo so e non lo saprò mai, so solo che anche in quell’occasione mi dimostrò l’eccezionalità del suo essere gatto.
Andata via la veterinaria ritornò nella sua postazione e si rimise a dormire.
Nel pomeriggio di martedì un tiepido sole ormai autunnale fece capolino sulla città. L’aria era ancora calda, e i mici sul terrazzo si godevano gli ultimi tepori in vista di un lungo inverno.
Presi Frankie e uscii. Me lo posai sulle ginocchia. In quel momento ebbi la consapevolezza che quello sarebbe stato l’ultimo sole che avrebbe sentito sulla sua pelliccia, e volli fargli questo regalo. Si accoccolò placidamente sulle mie ginocchia, accennando anche ad un timido ron ron. Sentivo che il suo corpo si scaldava pian piano, e sperai segretamente che nel posto in cui presto sarebbe andato avrebbe potuto godere dei raggi del sole per sempre.
Quando arrivò il tramonto e iniziò a tirare una leggera brezza rientrammo.
Quella notte riuscii a rimanere sveglia fino alle 4, poi, stremata, crollai.
Alle 7 Frankie era ancora vivo, ma notavo peggioramenti rispetto al giorno prima. Continuavo con la flebo in vena e sottocute, ma mi accorsi che il bolo che si formava ogni volta tra le scapole e che in breve tempo veniva assorbito dall’organismo, ora restava lì, come se il corpo di Frankie lo rifiutasse.
Quel segnale mi fece capire che la fine era vicina.
Andai in ufficio con il cuore in gola, mai come in quel momento avrei voluto rimanere lì con lui. Per tutta la mattina tempestai mia madre di telefonate, ancor più che nei giorni precedenti, costringendola a controllare le condizioni di Frankie ogni mezzora.
All’una e trenta finalmente rientrai a casa. Frankie era come al solito steso sul divano, ma non aveva alcun segno vitale, se non il sommesso alzarsi e abbassarsi della pelliccia ad ogni respiro.
Quando mi chinai per carezzarlo e lo chiamai si mosse, ma molto debolmente. Rimasi con lui tutto il tempo, finchè mia madre non mi chiamò perché era pronto in tavola. Salutai Frankie promettendogli di tornare subito.
A tavola mi ingozzai velocemente, ogni minuto passato lontano da quel divano era un minuto buttato. Finii il mio piatto di pasta e guardai l’orologio: erano passati 5 minuti, avevo ancora mezzora per stare con lui e poi sarei dovuta tornare in ufficio.
Corsi in salotto.
Lo carezzai, lo guardai, e mi accorsi che non respirava più. Frankie se n’era andato, e aveva aspettato che io fossi lontana per farlo.
I gatti hanno una grande dignità nella morte, e quando sentono avvicinarsi il momento si allontanano, si nascondono, perché nessuno debba assistere a quello spettacolo. Frankie era troppo debole, e non aveva potuto seguire l’abitudine istintiva che miliardi di gatti seguono da sempre.
Aspettò invece che io non ci fossi, se ne andò in silenzio, senza un gemito, senza un sussulto. Discreto come era sempre stato.
Inutile dire che scoppiai in lacrime.
Subito accorse mia madre, gli altri gatti e il cane. Non so se gli animali capiscano il concetto di fine della vita, o se sappiano distinguere tra un corpo morto e uno vivo, ma il comportamento di Schubert in quel momento mi sorprese non poco. Piangevo, carezzando il corpo ormai senza vita di Frankie, quando mi accorsi che Schuby era accanto a me e tremava come una foglia. Forse aveva percepito il mio dolore, e tutto quel trambusto l’aveva spaventato. Fatto sta che tremò per tutto il tempo, finchè non arrivò la dogsitter a portarlo via.
Quel 26 settembre fu per me un giorno molto triste. Scoppiò un forte temporale, e le temperature si abbassarono velocemente. L’estate era finita, e con essa anche la breve esistenza di Frankie su questa terra.
Nei giorni seguenti lo portai a Capri, perché potesse riposare per sempre nel suo bel giardino. Sulla sua piccola tomba, così come ho fatto con tutti gli altri gatti della mia casa, ho posto un geranio, che mi sembra sempre in fiore, estate e inverno.
Voglio credere che quello sia il modo di Frankie per salutarmi costantemente, e per farmi sapere che non mi ha dimenticato, che mi sta aspettando. Quando penso a lui penso sempre alla leggenda indiana del ponte dell’arcobaleno, una storia molto bella che spesso ritrovo nei libri e in internet.
“Proprio alle soglie del Paradiso esiste un luogo chiamato il Ponte dell’Arcobaleno. Quando muore un animale che ci è stato particolarmente vicino sulla terra, quella creatura va al Ponte dell’Arcobaleno.
Ci sono prati e colline perché tutti i nostri amici speciali possano correre e giocare insieme. C’è abbondanza di cibo, acqua e tanto sole, e i nostri amici non hanno freddo e stanno bene assieme. Tutti gli animali che erano stati ammalati e vecchi sono restituiti alla salute e al vigore; quelli che erano stati feriti e mutilati sono nuovamente resi sani e forti, proprio come li ricordiamo nei nostri sogni di un tempo.Gli animali sono felici, eccetto che per una piccola cosa: ognuno di loro sente la mancanza di una persona speciale, che ha dovuto essere lasciata indietro. Tutti corrono e giocano assieme, ma viene il giorno in cui uno di loro improvvisamente si ferma e guarda lontano. I suoi occhi brillanti fissano intenti; il suo corpo è preso da un tremito. D’improvviso egli inizia a correre staccandosi dal gruppo, quasi volando sopra l’erba verde, le sue zampe lo portano a correre sempre più veloce. Tu sei stato scorto e quando tu e il tuo amico speciale alla fine vi ricongiungete, vi stringete l’un l’altro in un abbraccio di gioia, per non lasciarvi più. Baci di felicità piovono sul tuo viso; le tue mani accarezzano di nuovo il capo del tuo amico tanto amato e ancora una volta guardi nei suoi occhi fiduciosi, che tanto tempo fa erano spariti dalla tua vita, ma mai dal tuo cuore. Poi, insieme, attraversate il Ponte dell’Arcobaleno…”

Sono certa che un giorno, su quel ponte, rincontrerò Frankie e non solo lui, li rincontrerò tutti, dal primo all’ultimo, anche quelli che hanno incrociato la mia strada per pochissimo tempo. Proseguo il mio percorso, e attendo il momento di essere sul ponte. Quando sarò lì mi basterà lanciare il mio richiamo una volta sola, per sentire di nuovo quel miewww tanto amato, e mai dimenticato.

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andre1978

questa storia è fantastica hai voluto bene a quel gatto come pochi. io ho perso da poco il mio gatto per ins. renale e mi spiace.. ciao

Puffi

.....senza parole ...ti abbraccio

Cecilio

Mi hai fatto venire la pelle d'oca... è una storia bellissima... ciao Frankie, eri davvero un micione speciale...

catecate

una bellissima storia d'amore ... ciao Frankie

micia86

Leggendo la vostra storia i minuti che passavano mi sembravano secondi e all'improvviso mi sono trovata gli occhi pieni di lacrime a tal punto da non vedere più lo schermo del pc...Francky è stato e lo è tutt'ora sul ponte dove si trova ancora adesso un micio speciale...alle volte sono loro che scelgono noi e sono convinta che non sia solo per caso,ma c'è una magia in corso che dovrà fare il suo corso ostacoli o non dovrà avverarsi...
sei stata una brava compagna,amica,mamma,sorella,sei stata brava in tutto con Francky e lui ha saputo ricompensartelo donandoti solamente una cosa.... ma la più bella è importante in assoluto sopra ogni cosa:L'AMORE!!!!
stai serena carola un giorno Francky starà di nuovo seduto sulla tua pancia e questa volta lo farà per sempre!
Vi abbracio forte Annamaria...

carola73

grazie a tutte davvero. frankie era un esserino tanto speciale, veramente speciali lo sono tutti, ma lui aveva qualcosa, qualcosa che non so definire. capiva perfettamente tutti i miei pensieri, e io capivo i suoi. non c'era bisogno di parole e miagolii fra noi, bastava uno sguardo per intenderci. sapevo quando aveva fame, sete, voglia di coccole, quando aveva paura o si stava divertendo. per me è stato molto più di un amico peloso, perdendolo ho avuto la sensazione di perdere un pezzo di me, una mia appendice..... ho visto morire tanti mici della mia casa, ma l'intensità del dolore che ho provato quando mi ha lasciato è inimmaginabile, pari a quella che si prova quando se ne va il tuo migliore amico. nei giorni seguenti ero svuotata, isterica, lo vedevo ovunque, e lo sentivo! non sentivo la sua presenza, ma avvertivo in tutta la casa la traccia del suo amore per me, e qualche volta la sento ancora. certe volte mi trovo a fantasticare a come sarà il nostro incontro e, non mi vergogno a dirlo, non me ne frega niente di andare eventualmente all'inferno, basta che me lo facciano rivedere!!!
vi ringrazio tutte per le belle parole
baci grandi

Tyrrel

...una storia d'amore bellissima..e dolcissima...ciao,piccolo Frankie,mi sembra di averti sempre conosciuto...

Tyrrel

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queenandwilly

Carissima Carola,
il tuo racconto mi ha straziato l'anima e il cuore...
Sei stata GRANDISSIMA!!! Hai una sensibilità ed un animo NOBILE!!!
Sei stata il suo Angelo protettore e custode in terra, per il tuo Frankie... A volte credo che la provvidenza ci aiuta a incontrare le persone di cui abbiamo bisogno, senza chiedere...
Frankie, ha incontrato te, ed è stato molto fortunato... Altri purtroppo non hanno queste fortune... Meriti tutta la mia stima ed ammirazione per tutto ciò che hai fatto... Certe storie entrano nel cuore, ed è impossibile rimanere indifferenti...
Credo che l'Amore per i nostri Pelosi non sia dovuto alle preferenze, ma qualcuno di loro è veramente SPECIALE... C'è una sintonia, un feeling inspiegabile... Basta la presenza, uno sguardo, un pensiero senza parola e loro percepiscono come a leggerci dentro...
Che bella cosa, che emozioni!!! Ci sono legami indissolubili anche dopo la morte...
Capisco quello che senti e provi... Anch'io spero un giorno, non importa dove e quando, di poter vedere e riabbracciare chi non c'è più, ma vive costantemente dentro noi...
Ti seguo sul post salute Gatto con la tua Nanà e ho sempre in mente la stupenda foto dei mici che in giardino mangiano ognuno nel suo piatto, tutti composti e ordinati, che bella famiglia di Pelosi!!!
A te un grande abbraccio...
al tuo Piccolo e Speciale Frankie il mio arrivederci sul ponte e una piccola rosa arcobaleno con petali che si abbracciano e accarezzano vicini vicini come lo saremo noi al momento del nostro incontro con i nostri Amati...

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Mille baci verso il cielo!!!

nikka